sabato 24 novembre 2007

Pseudoarcheologia del brivido


L'altro giorno sono andato a vedere il Nascondiglio di Avati, devo dire non senza una certa commozione. Non capita tutti i giorni di poter vedere in pellicola un lavoro di gioventù di un grande maestro del cinema italiano; perdipiù un film sconosciuto ripescato dalle sabbie del passato in chissà quale rocambolesco modo e circostanza, un film di cui nessuno sospettava l'esistenza, e forse nemmeno lo stesso Pupi ne aveva ancora memoria. Io sono cresciuto a pane e Zeder, potete immaginarvi dunque l'emozione, un moto dell'anima che, sotto una pellicola di brivido ed euforia conteneva -ebbene sì- un germe di genuino affetto e tenerezza, come mi si palesava mentre vedevo quelle immagini vecchie di decenni illuminarsi sul telo.
Guardavo il film e mi rendevo conto che sì, in quell'opera ovviamente ancora acerba -per non dire acre- chi aveva la giusta sensibilità poteva senz'altro intuire temi e stili che poi il grande Pupi avrebbe saputo far decantare e distillare. Sono già in costruzione nel poderoso cantiere filmico che è la mente del nostro, le idee alla base del cosiddetto 'gotico padano' che prenderà vera vita con la Casa dalle finestre che ridono: nel Nascondiglio siamo ancora ad una fase immatura, sperimentale; Avati sente di stare cercando qualcosa di nuovo, sente questi nuovi colori che vogliono uscirgli dalle vene, ma non ha ancora lucidità e coraggio per l'intuizione che verrà, e cioè ambientare l'orrore in un contesto precipuamente italiano, anzi, regionale. Così ricalca mode e tendenze più timidamente mainstream e colloca il tutto nell' Iowa, USA, forse sperando nella benevolenza di numi tutelari di quelle latitudini.
Il soggetto stesso, inoltre, è una stilla di inquietudine, più che di paura vera e propria, niente più. Quella stilla, solitaria e senza alcuna strutturazione, diventa il cuore pulsante della vicenda, e tutto il resto dell'apparato narrativo è solo un morbido bozzolo di bambagia per incubare e coccolare quell'unica idea, quell'unico, timido brivido. Ma chi sa, chi conosce, e chi ha il senso del cinema di Avati, vede quel brivido implume e in qualche modo sente che germoglierà, che saprà prendere coraggio e vigore e, insediatosi in Emilia, trasformarsi in una vera progenie di incubi. Allora gli si perdona qualunque ingenuità, come la noncuranza per la gestione dei personaggi, due dei quali, una volta compiuto il loro dovere di 'incubare' la protagonista -che, allora sconosciuta, diventerà un volto via via sempre più noto del cinema italiano- vengono letteralmente tagliati via dal montaggio (o dalla sceneggiatura? chissà se esiste ancora o se è andata persa, pergamena marcita in qualche scaffale in qualche villa antica...), senza un saluto, senza una nota nemmeno in quella didasacalia finale, appena prima dei titoli, che è un ennesimo segno dei tempi giovani e immaturi di un cineasta che sta crescendo: e che di lì a poco se ne fregherà di cercare di convincere il suo pubblico che quello che sta vedendo sullo schermo 'potrebbe anche essere stato vero'.
Andate a vedere il Nascondiglio: andate a vedere coi vostri occhi come un autore si evolve da un passato in cui non gli avreste dato due lire, e finisce col diventare il regista del mio film horror italiano preferito (che no, caro Piero, per me non è Profondo Rosso...).
emanuele

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