
Mi chiedo: che senso ha stroncare il meraviglioso urlo anarchico di Dario Argento, La terza madre, partendo dalle considerazioni sulla sceneggiatura e sulla recitazione degli attori? Quando mai il cinema di Argento si è interessato, in modo tradizionale, a questi elementi? In tutta la sua filmografia, a partire dagli esordi, ricorrono straordinarie voragini negli script, più radicali derive di senso che approdi conformistici verso il senso compiuto (e imposto). È anche questo che rende il (suo) cinema una magnifica ossessione: l’irrisolto, la mancanza, la deviazione (oltre che la devianza). Per il regista che ha scardinato i codici di un genere (che sempre, per la sua essenza politica e metalinguistica, non fa altro che rimettersi continuamente in discussione), che ha fondato nuovi regimi del vedere, ha sempre contato prima di tutto lo sguardo più che la narrazione; allo stesso modo ha sempre considerato gli attori non come portatori di senso attraverso l’arte della recitazione ma come veri e propri oggetti scopici, corpi-feticci donati generosamente al voyeurismo del regista e dello spettatore. Sempre, ed è virtù ormai rarissima nel cinema italiano, con onestà e limpidezza, totalmente alieno da qualsiasi furbizia, connivenza e (auto)compiacimento. Con divertimento. Con gioia e rivoluzione, citando gli Area. Tutto questo Argento lo ripropone nel suo ultimo capolavoro, La terza madre. Altro che il tempo si è fermato. Il tempo (della critica) forse è morto. Argento è vivo, più che mai.